L’uomo e l’ape: un rapporto che non si è mai interrotto.

L’uomo e l’ape: un rapporto che non si è mai interrotto. L’uomo se non ci fossero state le api non avrebbe potuto raggiungere lo stato di civiltà odierno. Le api, senza l’uomo non avrebbero potuto spingersi in territori per loro inaccessibili. Probabilmente è la specie, assieme all’uomo, che più è ubiquitaria. 

Quando l’uomo cominciò fare i primi passi sulla Terra, l’ape da miele si era già perfettamente evoluta da circa un milione di anni; quantità abbondanti di miele erano quindi disponibili per un gran numero di animali. Tra questi lo scimpanzé, ancora oggi buon cacciatore di miele (https://www.janegoodall.it/index.php/2020/05/08/scimpanze-cibo/). Homo sapiens ha quindi continuato ad alimentarsi di miele in tutte le fasi della sua filogenesi che lo hanno visto evolvere dalla scimmia. La prima raffigurazione che immortala un apicoltore-raccoglitore di miele durante il suo lavoro, invece, è molto più recente: è datata 7000 anni prima di Cristo e si trova in Spagna, nelle vicinanze di Valencia. In una roccia della Cuevas de la Araña (Grotta del Ragno) è ben visibile l’immagine di un apicoltore (probabilmente un'apicoltrice) intento a prelevare un favo di miele. 

Finché gli uomini hanno abitato la Terra vivendo in maniera nomade, le api erano solo insetti da depredare del loro alimento in quanto energetico e facilmente conservabile; un frutto del bosco, come tanti altri che trovava sulla strada nel suo lungo peregrinare. Probabilmente importante era anche nutrirsi della covata delle api, un alimento altamente proteico. L’alveare, grazie all’estenuante azione di difesa delle api non veniva distrutto completamente. Certo, molte api morivano per via del fatto che il pungiglione rimane conficcato nel corpo dell’aggressore ma grazie alla resilienza del superorganismo questi riusciva a sopravvivere. E, allora, rimaneva lì pronto nella stagione successiva per essere nuovamente depredato quando l’uomo nomade ripercorreva la vecchia strada. 


L’uomo e l’ape: nasce l’agricoltura e il rapporto tra l’uomo e l’ape si intensifica.

Quando, circa 10.000 anni fa, l’uomo ha cominciato a fermarsi sulle rive dei grandi fiumi dove era possibile vivere in maniera più stabile coltivando piante e allevando animali, allora, in quel momento, alcuni di loro sono divenuti apicoltori. Non hanno fatto altro che prendere alcune colonie, che si trovavano nei boschi dentro il cavo di un albero, e portarli, con la porzione di tronco, nelle vicinanze delle loro abitazioni. La tecnica di raccolta rimaneva la stessa di sempre. Quando gli alveari sciamavano, però, c’era una possibilità nuova, quella di aumentare il numero degli alveari e, di conseguenza, la quantità di miele prodotta. L’agricoltura ha avuto fortuna proprio perché ha dato la possibilità alle prime popolazioni che se ne sono servite, di avere maggiore cibo a disposizione e, quindi, più sicurezza sull’alimentazione della prole (https://it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_neolitica).

Da allora, la popolazione umana si è rapidamente accresciuta e, quando le arnie naturali hanno cominciato a scarseggiare, gli antichi apicoltori si sono riversati su contenitori di uso comune più facili da reperire: cesti di paglia, cortecce di sughero e perfino vasi di terracotta. 

Siamo nell’era della industrializzazione e il rapporto tra l’uomo e ape si ingarbuglia.

Da quell’epoca in poi l’apicoltura è pressoché immutata (naturalmente con alti e bassi) fino al 1851, anno in cui Langstroth scoprì lo spazio d’ape e, quindi la possibilità di costruire un telaino che potesse essere facilmente estratto dall’alveare. 

Questa è la data in cui è nata l’apicoltura moderna (o come qualcuno ama chiamarla, un po’ pomposamente, razionale). È il metodo per allevare le api più diffuso (pressoché unico) nel mondo occidentale o occidentalizzato ed è quello più esportato in Africa, dove è ancora forte un tipo di apicoltura, per così dire, tradizionale. Questo stato di cose è stato indotto sicuramente dalla necessità di trarre sempre maggiore reddito dall’apicoltura, ma anche dall’avvento della Varroa (Varroa destructor), un acaro originario di dell’Asia orientale, capace di vivere anche sull’Apis cerana ma senza provocare danni. Nel giro di pochi decenni questo parassita ha distrutto la quasi totalità delle colonie selvatiche e quelle allevate dagli apicoltori in arnie tradizionali. Questo ha prodotto un danno ambientale enorme perché esistono solo pochissimi alveari naturali non sufficienti all’impollinazione nelle zone dove non sono presenti apicoltori e culturale in quanto ha distrutto la miriade di modi diversi di allevare api nel mondo. Qualcosa è rimasto in alcune aree dove gli apicoltori, pur dovendo far fronte a mille difficoltà, hanno continuato imperterriti nel loro metodo tradizionale di allevare api. Ad esempio in Sardegna dove ancora sono diffusi qualche migliaio di alveari in arnie di sughero e in Baschiria, repubblica della Federazione Russa, tra il fiume Volga e gli Urali, dove si pratica diffusamente l'apicoltura forestale. Qui ancora troviamo cercatori o cacciatori di miele (oramai diventati soprattutto un richiamo per i turisti) ed anche apicoltori con arnie moderne. Il miele è raccolto dai nidi delle api selvatiche, nella riserva dello Shulgan-Tash, dove vive e viene preservata l'ape "Burzianski". I cacciatori di miele, detti "bortevik", svolgono questa attività in competizione con gli orsi e nel rispetto delle esigenze della colonia di api che vive nel tronco d'albero. In entrambe i casi il miele è raccolto una sola volta l'anno, calcolando i favi che possono prelevare e quelli da lasciare perché la famiglia possa superare l'inverno senza morire di fame (https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/0005772X.2015.1047634?journalCode=tbee20). 

L’apicoltura che si è sviluppata dopo la scoperta di Langstroth è senza dubbio il metodo più produttivo soprattutto perché meccanizzabile, ma anche perché si costringe l'ape a mantenere artificialmente uno stadio di estrema forza, anche quando le condizioni atmosferiche lo sconsiglierebbero; lasciate a loro stesse, ad esempio in caso prolungato scarso flusso nettarifero, tendono a trovare un equilibrio con l'ambiente, riducendo il numero di api e, quindi, il loro metabolismo. Va sfatato, una volta per tutte, l’opinione che questo modello di apicoltura è stato adottato in quanto permette di raccogliere miele senza uccidere le api.

Conservare la supremazia sulla Natura o ricominciare a farne parte?

Gli apicoltori dell’antica Grecia e dell’Impero Romano ce lo hanno insegnato, è possibile fare apicoltura tradizionale, senza per questo ricorrere all’apicidio. Del resto sembra provato che già nella metà del 15° secolo, questo fosse vietato in Toscana, e se era vietato vuol dire che non solo era tecnicamente possibile rispettare la vita delle api, ma anche che molti apicoltori applicavano con successo tecniche di allevamento meno cruente. Nel 1600, in Grecia, gli apicoltori avevano messo a punto un modello di arnia, formata da una cesta la cui imboccatura era chiusa da listelli di legno, che dava libertà alle api di costruire i favi parallelamente al listello. La cera dei favi non si attaccava alla cesta, così che questi potevano essere sollevati senza problemi. Dall'evoluzione di questa arnia nacque, qualche secolo dopo, la Kenyan top bar hive (KTBH) che oggi è una delle arnie più impiegate fra coloro che  il metodo attuale di fare apicoltura. 

È un'arnia a sviluppo orizzontale, senza melario, e dalla forma trapezoidale. Il cardine di questa arnia è proprio la sua forma, con i lati che hanno una pendenza interna che evita che le api attacchino i favi alle pareti laterali, permettendo l'estrazione dei favi. Questi sono attaccati alle barrette (top bar) che, come nell'arnia a cesta di origine greca, vanno a chiudere superiormente l'arnia. 

In Sicilia, fino a pochi anni fa, erano ancora in funzione i “fasceddi”, alveari realizzati con la ferula, dove si poteva raccogliere il miele senza uccidere le api, modellate per facilitare il nomadismo, da sempre in auge in quel territorio.

Un altro motivo rilevante per il quale è caduto in oblio il modello ancestrale di allevare le api è da ricercarsi, oltre alla citata necessità di aumentare la produttività degli allevamenti, nella perdita di importanza, per la società umana, della cera, che nel passato era utilizzata per illuminare, impermeabilizzare, realizzare vari tipi di stampi, come supporto per scrivere, per realizzare unguenti e balsami, per produrre vernici e protettivi per il legno. 

La cera e il miele, due prodotti la cui importanza per l’umanità oggi facciamo fatica a comprendere. Senza di loro la vita sarebbe stata terribilmente più difficile. Ecco la vera ragione della diffusione dell’apicoltura. Fino a 50 anni fa era difficile trovare nelle nostre campagne poderi che non avessero al loro interno gli alveari occorrenti (e anche più) a soddisfare le necessità familiari. Praticamente le api facevano tutto da sole, poche cure, poche malattie, al massimo si doveva inserire i nuovi sciami nelle arnie e raccogliere (in vari momenti dell’anno a seconda della tradizione) il miele e lavorare la cera.

Ed ecco perché le api erano considerate sacre, perché producevano una quantità impressionante di cose utili. Della cera abbiamo detto; il miele, invece, era considerato, e lo è tuttora, un alimento speciale perché oltre ad avere caratteristiche organolettiche piacevoli, ha anche un eccezionale potere energetico e riconosciute virtù terapeutiche (è un blando, ma sano, antibiotico ed è molto efficace per disinfettare e far cicatrizzare le ferite); veniva costantemente utilizzato in cucina, perché era, insieme a uva passa, prugne e pochi altri frutti, dolce (pensiamo al famoso gusto agro-dolce degli antichi romani) ma anche un conservante: tutte caratteristiche che difficilmente un alimento riesce a condensare in sé.

Oggi, purtroppo, non è più così: l’uso indiscriminato di pesticidi ha notevolmente ridotto il numero di insetti pronubi che vivono allo stato selvatico e tra questi anche le api da miele: la varroa, un acaro che conviveva pacificamente con l’Apis cerana, ha cambiato ospite e ha raggiunto l’Europa e il resto del mondo, lasciandosi dietro una terribile scia di morte; i prodotti dell’alveare hanno perso interesse perché sostituiti da altri apparentemente di minor costo. Il rinnovato interesse per la salvaguardia ambientale e il ritrovato amore per i prodotti salubri potrebbero restituire nuova linfa all’apicoltura. 

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