Storia apicoltura biologica: la base di un nuovo modello di sviluppo.

Count down per l’agricoltura occidentale. Un mondo sempre più alla ricerca spasmodica di paradigmi che abbraccino la sostenibilità ambientale ha come primaria necessità quella di produrre alimenti seguendo lo stesso modello. Una palestra per questo già esiste e si chiama agricoltura biologica. 

Grazie alla sensibilità di alcuni agricoltori illuminati e alla disponibilità di parte della ricerca è stato possibile sperimentare delle alternative a pratiche scellerate che sfruttando all’inverosimile le risorse ambientali hanno lasciato un mondo sempre più invivibile: inquinamento, sfruttamento animale ed ora anche i cambiamenti climatici. È alcuni anni che l’agricoltura, da consumatrice di C02, per via della sintesi clorofilliana che la trasforma in ossigeno, si è trasformata, a causa dell’uso sempre più massiccio di mezzi che viaggiano ad energia fossile e agli allevamenti intensivi, in produttrice di grandi quantità di gas serra. Senza parlare delle tonnellate di pesticidi che ogni anno sono riversati nei terreni per eliminare parassiti e erbe infestanti e della distruzione di importantissima biodiversità. 

Fortunatamente l’Italia è uno dei paesi all’avanguardia nel campo dell’agricoltura biologica (e in apicoltura lo siamo ancora di più) sia per la produzione che per le conoscenze tecniche. Per anni, ad esempio, siamo stati il primo paese per superficie agricola certificata fino a quando, almeno, non hanno cominciato a produrre derrate bio paesi quali l’Australia, l’Argentina e la Cina.

Dagli anni in cui ho cominciato a muovere i primi passi nel bio le cose stanno cambiando sempre più rapidamente. Nel 1978, anno della mia iscrizione alla Facoltà di Agraria di Perugia, chi avesse voluto saperne di più su un tipo di agricoltura più sostenibile avrebbe dovuto fare una fatica indicibile. Tutti i dipartimenti della mia Facoltà avevano solo un’idea molto vaga di cosa fosse l’agricoltura biologica.  Da allora, ma soprattutto negli ultimi vent’anni, il comparto ha avuto un eccezionale sviluppo, malgrado ancora oggi in molte nazioni l’agricoltura biologica è vista più come un’interessante possibilità di esportazione di prodotti agroalimentari che non una scelta consapevole di sostenibilità ambientale. Possiamo dire che il modo è fortemente diviso in due: gli stati che producono bio e quelli che lo consumano.
Comunque, a prescindere da tutto, un ettaro tolto all’agricoltura convenzionale e convertito al bio è pur sempre un terreno nel quale non verranno più riversati chili e chili di pesticidi (la media italiana è di 5 chili per ettaro con punte di 12 chili in zone vitivinicole).

Ma facciamo un passo indietro e vediamo come tutto è iniziato.

 

Storia apicoltura biologica: ricostruiamo il lungo percorso

L’idea di un’agricoltura più sostenibile dal punto di vista ambientale nasce in seguito alla meccanizzazione e industrializzazione dell’agricoltura, quando si comincia a capire che non era tutt’oro quello che luccicava.

Le critiche al modello industriale dell’agricoltura prendono forza verso la metà del 1800 nei primi paesi che per storia e territorio l’avevano per primi abbracciata quindi soprattutto in Germania e in Inghilterra.

È in quel periodo che in Germania nasce il movimento Lebensreform che propugnava un modello di vita sana con alimentazione a base di cibi integrali, uso di medicine naturali, rifiutando alcol, tabacco e droghe.

Nel 1900 fu aperto in Westfalia il primo negozio al dettaglio di generi alimentari e prodotti per la cura personale - Reformhaus - realizzati secondo i principi del movimento Lebensreform.

In questo terreno fertile si inserisce Rudolf Stainer matematico, fisico e filosofo tedesco fondatore della Società di Antroposofia. L’Antroposofia è un pensiero filosofico che postula la possibilità di poter studiare in maniera unitaria e attraverso l’uso del metodo scientifico la realtà fisica e la dimensione spirituale umana. 

Nel 1924 Stainer fu inviato da un gruppo di agricoltori della Slesia a tenere delle conferenze sulla visione antroposofica dell’agricoltura e, a seguito di queste lezioni, nacque un gruppo di studio che chiamò questo approccio biodinamico in quanto tende a dinamizzare le forze della natura e metterle in sintonia con l’energia dell’universo. Nel 1927 nasce la prima cooperativa di agricoltori biodinamici e nel 1928 fu depositato il nome e il logo di Demeter (https://demeter.it/biodinamica/).

La prima volta che compare in uno scritto la parola agricoltura biologica è nel 1940 nel libro del barone Lord James Look to the land. Grossomodo nello stesso periodo (1935) un approccio analogo a quello dell’agricoltura biologica prende il via in Giappone grazie a Mokichi Okada. Il movimento fu chiamato Nature farming ed anche in questo caso si fuse la voglia di coltivare senza l’uso di fertilizzanti e molecole chimiche alla spiritualità. Contemporaneamente e separatamente un altro botanico e filosofo giapponese, Masanobu Fukuoka, elaborò un sistema agricolo alternativo. Pioniere della agricoltura naturale o del non fare fu autore di best seller quali La rivoluzione del filo di paglia e The Natural Way of Farming.

Siamo ora in Francia negli anni ‘60 e vari gruppi e movimenti interessati all’agricoltura biologica fondano Nature e Progrés che avrebbe poi partecipato alla costituzione nel 1972 dell’IFOAM assieme ad altre associazioni di Svezia, Sud Africa USA e Regno Unito.

Nel 1978 viene pubblicato il libro Permaculture one che descrive l’idea di Mollison e Holmgren ovvero un esempio di agricoltura che integra le colture permanenti (piante da legno o frutta) con le coperture erbacee. Si tratta di disegnare dei paesaggi che riproducano i modelli e le relazioni della natura, ma capaci di ottenere rese abbondanti di cibo fibra e energia per i bisogni locali (https://www.permacultura.it/index.php/cosa-e) https://bioapi.it/10-articolo-in-evidenza/30-apicoltura-rigenerativa-prima-di-tutto-e-un-viaggio-dentro-noi-stessi

Nel 1980 l’IFOAM pubblicò il primo standard per la produzione e la trasformazione dei prodotti biologici che fu la prima norma, seppure privata, che legava assieme produttori, trasformatori e consumatori di prodotti biologici.

Nel 1987 l’Unione Europea cominciò ad interessarsi alla realizzazione di una legislazione sull’agricoltura biologica che poi venne finalmente alla luce nel 1992 (Reg Ce 2092/91). Con questo regolamento venivano normate solo le colture agrarie e non la zootecnia. Forte era la lobby della produzione zootecnica convenzionale che spingeva affinché l’estensione della possibilità di vendere con il marchio bio fosse attardato. Sapevano benissimo che quello sarebbe stato il salto che avrebbe dato al biologico un futuro più roseo. Questo perché avrebbe aperto le porte, anzi gli scaffali, ai prodotti per l’infanzia bio: latte e derivati, completato la gamma degli omogeneizzati e, perché no, anche il miele. E così fu: nel 1999, a seguito di numerosi scandali, primo fra tutti quello più noto come lo scandalo dei polli alla diossina (https://www.lifegate.it/polli-uova-diossina-belgio), l’Unione Europea emanò il regolamento (CE) n° 1804 del 19/07/1999, che completava, per le produzioni animali, il regolamento n° 2092/91 relativo al metodo di produzione biologico di prodotti agricoli ed alla indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari. Naturalmente questo è il passo che più di tutti ha interessato noi apicoltori che già allevavamo le nostre api seguendo il metodo dell’agricoltura biologica e che seguivamo delle norme private scritte dagli organismi di controllo. 

Tutto quello che è successo dopo è storia moderna.

 

Definizione di apicoltura biologica.

La nozione più importante che deve avere chi vuole avvicinarsi all’agricoltura biologica è che, innanzitutto, essa è un modello di agricoltura (descritto da norme che prendono la forma di un disciplinare di comportamento) che solo secondariamente riguarda la salubrità dei prodotti alimentari ottenuti che sono solo il benefico effetto di una condotta virtuosa dell’agricoltore. 

Se si legge la definizione di agricoltura biologica dell’IFOAM, essa deve essere vista più come un modello di sviluppo sostenibile e durevole nel tempo che si propone di alterare e di depauperare il meno possibile l’ecosistema e le risorse naturali con un’attenzione particolare all’ambiente, al benessere animale e alla salute del consumatore, permettendo alle generazioni future di godere del medesimo ambiente favorevole.

Chi mette in pratica il modello di agricoltura biologica deve drasticamente ridurre gli apporti esterni all’azienda, non deve impiegare fertilizzanti, fitofarmaci e medicinali per uso animale derivanti dalla chimica di sintesi. Col suo agire l’agricoltore bio deve generare una scarsa modificazione dell’habitat naturale di piante e animali, rispettare la stagionalità e utilizzare energie rinnovabili. Gli animali allevati devono avere una vita conforme alle esigenze della specie. Chi abbraccia l’agricoltura biologica non può far uso di OGM.

In particolare e in estrema sintesi, le differenze tra il modello di apicoltura convenzionale e quello biologico si basano su tre punti: 

  1. Qualità dell’ambiente esterno all’alveare: quando decide dove dislocare i propri alveari l’apicoltore è obbligato a valutare con maggior scrupolo la qualità dell'ambiente dove le api bottinano.
  2. Qualità dell’ambiente interno l’alveare: l’apicoltore bio deve utilizzare maggiore accuratezza e attenzione quando somministra delle sostanze alle api (che siano medicine o alimenti).
  3. Il controllo: l’azienda certificata è soggetta ad una o più ispezioni annuali da parte di un Organismo di controllo che deve valutare la conformità dell’operato dell’imprenditore apistico alla legislazione sul bio.

Quindi se un apicoltore convenzionale fosse più diligente di uno biologico - ad esempio perché colloca i suoi alveari solo in zone montane non antropizzate, evitando di alimentare le api anche in caso di rischio di morte per fame e scegliendo in maniera responsabile  di  non difendere con prodotti chimici i propri alveari dalla Varroa - il prodotto finale potrebbe addirittura essere più consono alle aspettative del consumatore. Tuttavia a quest’ultimo mancherebbe la possibilità di ricevere garanzie sull’operato del produttore. Quindi nel rapporto tra colui che vuole allevare le sue colonie nella maniera più sostenibile dal punto di vista ambientale e chi vuole cibarsi con i prodotti derivati da tale modalità di allevamento, l’Organismo di controllo funge da garante dell’accordo. Permette che sulla tavola del cliente finale arrivino i prodotti da lui ricercati mentre all’apicoltore assicura che non vi sia (o almeno che non vi dovrebbe essere) concorrenza sleale tra chi dice di produrre secondo le regole prestabilite e chi lo fa per davvero.

 

I riferimenti di legge.

Il Regolamento dell’Unione Europea che norma l’agricoltura biologica è del 2018 ed entra in vigore a gennaio del 2022. Esso va a sostituire i regolamenti CE l’834/2007 e l’889/2008 che a loro volta  hanno sostituito il 2092/91 che come abbiamo visto fu la prima norma europea sull’agricoltura biologica.

Il regolamento CE 848/2018 sarebbe dovuto entrare in vigore a Gennaio 2021 ma l’emergenza Covid 2019 ha fatto slittare di un anno la sua data di applicazione.

Secondo l’ultimo regolamento dell’Unione Europea la produzione biologica è: “Un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori prassi in materia di ambiente ed azione per il clima, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali e l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e norme rigorose di produzione confacenti alle preferenze di un numero crescente di consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali”.

La produzione biologica esplica pertanto una duplice funzione sociale provvedendo, da un lato, a un mercato specifico che risponde alla domanda di prodotti biologici da parte dei consumatori e, dall’altro, fornendo al pubblico beni che contribuiscano alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale.

Tuttavia, per chi come me ha un’idea di questo modello di agricoltura come uno dei possibili cardini di un società futura più sostenibile e a misura d’uomo, far  riferimento, come scintilla del tutto, all’elemento economico che scaturisce dal rapporto produttore/consumatore, appare riduttivo. Sarebbe auspicabile, a mio avviso, una svolta verso il modello proposto da IFOAM.  

Comunque nei prossimi articoli cominceremo ad addentrarci nei meandri della legge per capire meglio come tramutare le norme in tecniche apistiche di uso quotidiano. 



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